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Becquerelzeviri
         "Elzeviro" significa articolo giornalistico di approfondimento, di solito non legato alla cronaca, che non essendo un pezzo d'informazione in senso stretto, dovrebbe brillare per le sue qualità letterarie...
       
     
     Un altro mondo a un’ora di macchina  (6 maggio 2007)
 Così avevate deciso la sera prima della partenza. Si sale da Maresca e si lascia la macchina al parcheggio del ristorante della Casetta Pulledrari, un ex-rifugio in mezzo ad un bosco di faggi belli fitti come i tuoi capelli di una volta.
Sentivi nell’aria qualcosa di diverso dal solito, non che ti immaginassi niente di particolare, ma di certo una domenica diversa. Il tempo era stato brutto, con pioggia ed anche un po’ di freddo ricacciato fuori dall’inverno ormai archiviato. Ma segnalavano la tendenza ad un miglioramento; ci speravi, confortato più dalle previsioni del LAMMA che da quelle di Giuliacci. Tua moglie ti guardava compiere il rito dei preparativi con aria divertita e non capivi bene se era per prenderti in giro o per compatirti. Lo zaino, la borraccia, il k-way, la torcia…”Pensi di tornare a buio?” “Ma no, è che a volte potrebbe servire nel fitto del bosco, se fa scuro perché piove” “Allora prenditi un ombrellino…”  Certe idee poteva averle solo lei, fare un trekking con l’ombrellino…ma siete forse dei ragionieri in pellegrinaggio al catasto?

La strada, subito dopo la sbarra, è grande, larga, battuta come una statale. Attraversate i primi strappi nella faggeta con un lieve affanno dato dalla pendenza decisamente ripida. Il bosco però offre riparo da un timido sole che vi accompagnerà ancora per un po’ fino al Rifugio del Montanaro, a 1560 e rotti metri sul livello del mare, da cui potete godere di una vista sulla conca verde digradante verso la piana di Pistoia e la valle della Lima. Facce simpatiche all’interno, di gente che sta preparando il fuoco per cuocersi il pranzo, sul muro campeggia un poster del soccorso alpino con la foto di Tai, il primo cane di unità cinofila di soccorso della Toscana: era del fratello del tuo amico, che oggi ha un nuovo golden retriver come compagno di avventura. Una coppia, che vi aveva poco prima superato ansimando nell’ascesa, siede sulle panche della terrazza del rifugio e vi saluta cordialmente. Guardate la cartina e vi accorgete di aver superato il Passo della Pedata del Diavolo, che separa la valle del torrente Maresca da quella dell’Orsigna: avevi letto da qualche parte la storiella che narra di quanto il diavolo fosse stato spaventato dagli abitanti della valle dell’Orsigna (più diavoli di lui) e ritirandosi avrebbe lasciato la sua impronta nel terreno, tanto da non farci crescere più alcuna pianta, ma a voi è sembrato solo un posto molto tranquillo e rilassante.

Nel giro di dieci minuti siete al Poggio dei Malandrini dove c’è il bivio tra il sentiero “20” e lo “00” come la farina (la G.E.A., Grande Escursione Appenninica), scegliendo il primo che costeggia il fianco del Monte Gennaio, più riparato e che poi si congiungerà col secondo, più avanti. Potete bere ad una piccola sorgente (“Del cacciatore, anno 1937” come inciso sulla targhetta) e poco dopo, il bosco inizia già a farsi più rado ed aprire spazi e scenari sui monti vicini, mezzi nascosti da nuvole di nebbia. Di lì a poco, subito dopo il limitare della vegetazione, il tuo amico si accorge di due marmotte che, immobili sopra delle rocce, studiano le vostre mosse. Estrai con cautela la macchina dal marsupio e scatti delle foto da lontano, senza teleobiettivo, ma anche se ce l’avessi, chi te l’avrebbe fatto fare di portarlo: già ti pesa quel poco che hai con te. Seguite il sentiero in lieve ascesa e lambite le prime lingue di neve rimaste nelle pieghe del monte, una distrazione dalla primavera ormai esplosa a valle da qualche settimana. Arrivate al Passo del Cancellino (1634 m) avvolti nella nebbia, fa freddo e ti metti il maglione per evitare di raggelarti il sudore dell’ascesa fatta finora. Il “cancellino” pare fosse il confine della chiusa di caccia del Granduca di Toscana, chissà se ci veniva pure lui quassù.
Proseguite fino al raccordo con la GEA, siete in cresta e si sente uno squittire strano… alzi il capo e vedi sopra di te, a circa 100 metri, spuntare dalle nubi, in picchiata come uno stukas, un volatile che sembra un falco e si getta più in basso su qualche preda a noi invisibile. Dopo dieci minuti, si dirada la nebbia e vi rendete conto di trovarvi di fronte ad un monte altissimo, largo, con almeno tre versanti e spunzoni di roccia che scappano fuori da lembi innevati; punti la bussola, segna NNW: è il Corno alle Scale!
 Pranzate, approfittando della schiarita, su dei sassi che fanno da divanetto, sul crinale che spartisce la Toscana dall’Emilia Romagna, le province di Pistoia e Bologna e di là dal Corno, Modena.
All’improvviso vedi sul costone di fronte, a circa cento metri da voi, tre animali che salgono: sembrano caprioli; qualche metro sotto, altri tre, uno di loro ha le corna, deve essere il maschio. 
Ecco di chi erano le impronte che ogni tanto incrociavano il sentiero, di cui ricordavi l’effigie nel Manuale delle Giovani Marmotte che era, insieme a quello di Yoghi, uno dei tuoi preferiti quando eri bambino. Finora non avete incontrato nessuno che appartenesse al genere umano, tranne quelli al Montanaro. Siete in minoranza, gli animali sono molti più di voi e nel loro ambiente naturale… vi sentite strani, siete voi ad essere un po’ fuori posto.
Non fai in tempo a pensarlo e vedi che dal sentiero che hai percorso viene su un ragazzo con un enorme zaino da trekking. Vi saluta chiedendovi degli animali, se sapete dirgli se erano caprioli o mufloni. Rispondi che non te ne intendi molto, di animali, ma il maschio aveva le corna simili allo stambecco del Gran Paradiso. Il paesaggio per te potrebbe essere davvero in Val d’Aosta, per quello che ne sai.
Ma perché al tizio piace pensare che siano mufloni? Il capriolo è una creatura più nobile, selvatica, timida e sfuggente; il muflone sa di pastorizia, di stanziale. Ci toglie un po’ di poesia del luogo.
Riprendete a salire con lo stomaco riempito e con la fiducia che di lì a poco saprete quanto dover ancora camminare. Attraversate un piccolo ghiacciaio e subito siete al Passo dello Strofinatoio, a 1847 metri, poco sotto la cima del Corno alle Scale. Con quel nome che sa di cencio, in mezzo alla nebbia, leggi sul palo della segnaletica le indicazioni dei sentieri che ti dicono che, a sinistra, per il Lago Scaffaiolo mancano solo una quarantina di minuti. Ok, si va di là, ma il vento freddo e carico di umidità che viene dalla valle sottostante, vi costringe a indossare l’impermeabile. Mentre ti sfili lo zaino ti accorgi che sotto di voi, a circa un chilometro c’è un rifugio con un impianto di risalita per le piste da sci, così piccolo da quella distanza che sembra un plastico da bambini. Per fortuna ora si scende, anche se dovete fare attenzione alla neve e alla pendenza del sentiero, sempre più stretto e tortuoso.
 Come fosse un avamposto nel deserto dei tartari, proprio di fronte a voi distante circa mezzo chilometro, sulla cima di un’altura brulla, vedete una costruzione bianca che altro non può essere che un rifugio: è il Duca degli Abruzzi, intitolato al mitico esploratore di cui hai letto le imprese sul K2, dove aprì la prima via per la scalata che sarebbe servita negli anni successivi a generazioni di alpinisti. In lontananza, si vede un falco che cerca di far alzare in volo uno stormo di cornacchie. Attraversate un altro corto ghiacciaio pianeggiante e siete subito sotto al rifugio. Mente salite, vi accorgete che sulla sinistra una piccolissima valle racchiude un lago ovale, incastonato tra piccole alture sassose e lingue di neve: è lo Scaffaiolo e a voi pare un piccolo Loch Ness, sotto un cielo plumbeo scozzese. La leggenda narra che tirando un sasso nelle acque del lago si scatenino improvvise e violente tempeste. Meglio non provarci, visto il cielo e quel venticello gelido che vi sferza da nord. Dicono che soffi anche ad oltre 100 Km orari, quando gira al brutto. Davvero una zona esposta alla forza della natura. Se solo pensi a stamani, alla partenza, e dopo un’ora di macchina…dalla foresta al paesaggio alpino … sei già in un altro mondo!


Un po' maraglio... (14 novembre 2008)  (lettera ad Enrico Brizzi)
 Avevi letto da poco una tesi di laurea, scaricata da internet, che parlava del camminare a piedi e del significato del pellegrinaggio come nuova forma di turismo di cultura.
Per caso, sei entrato in libreria per cercare qualcosa da leggere nell’ultimo spicciolo di vacanza che ti era rimasto. Quel titolo ti ha subito incuriosito, ma soprattutto il sottotitolo: “Viaggio a piedi dall’Argentario al Conero”. Il tizio sulla quarta di copertina ha qualcosa di familiare, o almeno così ti sembra. Nel risguardo leggi che ha scritto già altri libri nonostante sia piuttosto giovane (a parte Jack Frusciante, per il resto non ne hai mai sentito parlare). Pensi che forse, è davvero bravo se pubblica per Mondadori.
Fin dall’inizio della lettura ti sei sentito partecipe di emozioni già vissute: la nascita di tua figlia, quelle sensazioni dei primi giorni, tua moglie che ti è più lontana del vicino di casa, le nonne che ti tolgono tua figlia dalle braccia ogni volta che la prendi, con la scusa che non sei capace di tenerla bene… La necessità di ritagliarti uno spazio vitale per poter anche soltanto pensare.
Il viaggio a piedi come percorso di maturazione, di crescita, di anabasi catartica.
Tu non hai camminato decisamente molto nella tua vita, anche se sei stato per qualche anno negli scout, come una volta, tanto tempo fa, a dormire sotto il cielo stellato di Monteverdi Marittimo. Anni dopo, con gli amici di sempre, nei pressi della Foce a Giovo, dove forse passò davvero Annibale con gli elefanti, e voi, persi sulla cima del Rondinaio in mezzo alla nebbia.
Ma le serate a fantasticare sulle carte geografiche te le ricordi ancora. Progetti più o meno strampalati, echi di quelli che facevi da bambino, quando passando per la Statale 67, sognavi di attraversare a piedi le colline tra Camaioni e Artimino con uno zainetto sulle spalle nella luce del sole che tramontava. Qualche volta ti capita ancora di esplorare carte e mappe, come facevi con l’atlante che ti aveva regalato il nonno col quale ti piaceva andare a camminare nel bosco, sopra i colli di Lastra a Signa.
Passare dall’Argentario per luoghi più o meno noti (dato che tua moglie ha una casa sulla costa della Maremma) fino al Conero, che hai visto da Ancona quando eri militare, è un’idea antica, che forse è venuta a chissà quanti ragazzi, ma non certo per un giro da farsi a piedi.
Coraggio, spirito di sacrificio, percorso di purificazione interiore, sono alla base di questa impresa, da un mare all’altro.
Per te, sarebbe bello al contrario, da Ancona a Grosseto, dove hai trascorso già qualche estate.
Già, ti piacerebbe poter partire, anche solo per un pezzo, anche solo per qualche giorno, anche solo per dire… “sono ancora vivo”. E comunque, a parte te, nessuno lo saprà.

Fabri, Gigi e ... Annibale
Perle ai porci o immondizia per palati fini?   (11 giugno 2009)                        
  L’ erba era scomparsa progressivamente dai bordi della strada lasciando il posto al marrone dello sterrato, mentre salivate verso la Foce a Giovo. Sentivi il fresco dell’aria di montagna e ripensavi al caldo della piana empolese, poco tempo prima.
Eravate partiti, i soliti tre di allora, quasi per caso, in un primo pomeriggio assolato di luglio. Non avevate un’idea precisa su dove andare, ma non ci volle molto a trovarvi d’accordo. Girasti la tua Corsa in direzione di Lucca, puntando verso la Garfagnana; appena superato Bagni di Lucca, potevate raggiungere l’Orrido di Botri, il piccolo canyon toscano.
“Non ci sarà quasi più acqua” buttasti lì, per vedere le reazioni dei tuoi amici. “Però chissà quante vipere tra i sassi!” disse Fabri con molto senso pratico. Dato che nessuno di voi aveva voglia di provare l’emozione dell’incontro ravvicinato con quei rettili, sceglieste una zona meno “umida”, ma certo più panoramica.
La strada saliva con dei tornanti ripidi fino al bivio per Tereglio, un borgo con poche case e uno spaccio che vende di tutto, che domina sull’intera vallata sottostante, nonostante sia riparato dagli alberi del bosco tutt’intorno. Un posto fresco, ideale per una vacanza di completo riposo.
Poco più in alto, l’asfalto lasciava il posto ad un sentiero largo e battuto, di un colore marrone che sfumava nel rossastro e diventava più stretto man mano che ci si avvicinava al passo. La Corsa arrancava su quel pendio contrastato da alcune pietre sporgenti dalle pareti rocciose che contornavano il tratto finale. Avevate ormai superato il Rifugio Casentini, una costruzione del Club Alpino Italiano per gli escursionisti e le guardie forestali, che quella volta però era chiuso. Non che vi interessasse particolarmente, dovevate fare solo un breve giro, per  rinfrescarvi dalla calura di quelle giornate.
Arrivati nei pressi della Foce a Giovo e lasciata l’auto sul ciglio della strada, dopo aver nascosto l’autoradio nel vano motore, avevate preso un sentiero alla vostra sinistra, in leggera discesa. Dopo poco però eravate ad un bivio e Gigi disse, sicuro, che il sentiero che iniziava a salire a sinistra era quello giusto per arrivare più velocemente al Lago Santo. Così avevate svoltato in quella direzione, ma dopo pochissimo vi eravate accorti che era tutta una salita continua tra massi e pietre sul fianco della montagna. Dopo quasi un’ora di cammino, giungeste ad uno spiazzo erboso, non molto grande, ma completamente immerso nella nebbia; faceva anche freddo, nonostante fossero circa le quattro del pomeriggio. In quel momento vi rendeste conto che c’era qualcosa di sbagliato nelle vostre un po’ troppo ottimistiche previsioni. Giorni dopo, consultando una mappa del luogo (che non avevate a disposizione in quel momento, data l’improvvisata della vostra escursione), scopriste di aver scalato il Monte Rondinaio, metri 1964 di altezza: eravate arrivati proprio sulla vetta, più in alto di quello stretto prato non c’era altro: e comunque, non si vedeva un accidente. Non fosse stato per la mole di Fabri, che quel giorno indossava una fruit bianca ed incombeva su di voi come una roccia di granito, avresti pensato di essere finito fuori dal mondo reale. Ti venivano in mente il passo del Vangelo sulla Trasfigurazione del Monte Tabor o più prosaicamente le nebbie inglesi dei vecchi film in bianco e nero di Sherlock Holmes.
Non fu impegnativa soltanto l’ascesa, perché la discesa vi ridusse a pezzi.
Mentre scendevate verso il Lago Santo, nei pressi del più piccolo Lago Baccio (poco più che una piscina), un temporale estivo si era abbattuto su di voi, costringendovi a deviare sul versante più riparato e meno alberato, finché, arrivati alla vostra meta iniziale, cercaste subito di risalire verso il passo dove avevate lasciato la macchina. Intanto ti tornava in mente la spiegazione semplice ed al tempo stesso molto singolare del professore di Fisica Medica all'Università che diceva: "Se volete calcolare esattamente la superficie di un lago, allora non potete fare a meno di usare un integrale". Ma si era fatto tardi, eravate già molto stanchi e di integrali ti venivano in mente soltanto dei panini.
Decideste allora di scendere a valle al paese più vicino, Pievepelago, anche se non c’era nessun mezzo pubblico; e allora, ancora a piedi. Altri otto chilometri che, nonostante fossero in discesa, non passavano mai. Dopo tutto quello che avevate già camminato fino ad allora, fu come ricevere il colpo di grazia.
Ad un certo punto, esausto per la fatica, ti eri buttato in mezzo alla strada per fermare un’auto che stava arrivando e i due occupanti, colpiti dalla tua folle determinazione da kamikaze, vi avevano montato su e poi lasciato in paese dopo appena qualche minuto. In effetti era proprio lì vicino, ma nessuno di voi lo sapeva.
Intanto si era fatta l'ora di cena e di autobus per risalire all’Abetone non ne sarebbero passati più fino al mattino seguente. Contati i soldi in vostro possesso, vi sareste arrangiati a dormire da qualche parte. Se non che, per puro caso, Gigi aveva ricevuto la paga il giorno prima; trovata la prima pensione aperta, in cui c’era in ritiro una squadra di calcio che militava in C1, dopo una cena piuttosto frugale, vi infilaste sotto le coperte come in trance. Non eravate esattamente nella vostra camera, perché il gestore vi aveva fatto preparare quella accanto, ma un cameriere per sbaglio vi aveva dato la chiave della stanza n. 8 ed in quella vi eravate catapultati a letto, ormai sfiniti. Se ne accorse la mattina dopo Gigi, infastidito per tutta la notte dal prurito della lana della coperta che, senza lenzuola, lo aveva avvolto nel sonno. Per te era stata una notte di sogni confusi, in cui scansavi grosse pietre e buche profonde, lungo sentieri montani, senza mai arrivarne alla fine.
La mattina, dopo colazione, prendeste l’autobus di linea che porta su fino all’Abetone: scesi a Faidello, riprendeste il cammino, ancora in salita, fino all’incrocio con la Strada del Duca, un acciottolato il cui tracciato risale alla fine del 1700, disegnato dall’Abate Vandelli, per volere dei potenti del tempo che volevano una via di comunicazione veloce con la Lucchesia. Una bella strada d’epoca, che ha avuto però il difetto di rimanere inutilizzata per molti secoli, a causa del forte innevamento durante l'inverno che non consentiva il passaggio alle carrozze e la rendeva insidiosa per i viandanti. Pare, anche se non confermato da fonti ufficiali, che, molti secoli prima, il grande condottiero cartaginese Annibale sia passato di lì dopo aver risalito dalla Val di Luce, con il suo esercito e gli elefanti, da utilizzare in battaglia come carri armati. 
Per voi, anche se un po’ affaticati dal giorno precedente, era invece una passeggiata piuttosto rilassante, durante la quale scherzavate allegramente, ritemprati nello spirito e confortati dalla brevità del tragitto. Non lo era invece per una signora incinta, con pancia assai voluminosa, che precedeva a piedi una Fiat 131, il cui autista -lo sprovveduto coniuge- vi chiese quanto tempo avrebbe impiegato per arrivare all’Abetone: per quanto fosse poco più di una passeggiata rispetto al vostro giro, non li invidiavi davvero: soprattutto la signora col pancione che sobbalzava ad ogni pietra facendola assomigliare ad un canguro con il suo piccolo nel marsupio.
Tra elefanti e canguri, non potevano mancare le pecore di un gregge che pascolava vicino al proprio ovile, qualche centinaio di metri più avanti, che scansaste con circospezione per evitare qualche cornata dai montoni più agitati.
In cima alla salita, di nuovo alla Foce, il percorso era finito. Era già ora di ritornare a valle, al caldo afoso, alle incombenze dello studio o del lavoro.
Vi era rimasta dentro, e avrebbe continuato ad alimentarsi per lungo tempo, la voglia di tornare da quelle parti con un po’ meno di approssimazione.
Ma questa è un’altra storia da non raccontare a Fabri…

 Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro  (14 novembre 2008)
Ho letto da poco “Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro” e, secondo me, Enrico Brizzi ha fatto un buon lavoro. La storia è avvincente, scorre bene ed è una lettura piacevole. Molto gradevoli le atmosfere più intime che l’autore crea in alcuni punti, come quando racconta dell’arrivo all’Abbazia di San Maurizio, con la sera che scende pian piano sul paesaggio e sui protagonisti, al sicuro dentro quella fortezza ai piedi delle montagne. Non ce ne sono moltissimi di questi brani, ma vale la pena di leggere tutto il libro soltanto per trovarli. Come quando ricorda ad Elvio la morale che se non saluterà Bern se ne pentirà per tutto il resto della sua vita. E’ la cronaca parziale di un viaggio che ha richiesto molta fatica e merita un grande riconoscimento. Si tratta di un viaggio alla scoperta di se stessi e dei propri compagni, delle persone che si sono incontrate lungo la strada.
Il precedente libro di Brizzi “Nessuno lo saprà” rimane una spanna sopra, ma questo gli si avvicina in certi punti, è un percorso dentro la vita e le sue ragioni, esplorando se stessi alla ricerca della propria autocoscienza (nosce te ipsum), anche se in modo più rarefatto, più intimo.
Un profondo rispetto per le opinioni degli altri, anche quelle più strampalate, e la lezione di non farsi dei pregiudizi che limitino in partenza la conoscenza di chi hai di fronte, che oltretutto esprime un atteggiamento di grande carità.
Piuttosto asciutto nelle descrizioni, i dialoghi sono svolti soprattutto dagli amici. Credo si possa interpretare la volontà dell’autore di limitarsi ad esprimere il meno possibile che andasse oltre l’essenziale.


Ogni uomo capace di riconoscenza  (14 novembre 2008)
 Ci siamo!  Finalmente, dopo quasi un anno, sei riuscito a mettere insieme i pezzi nella tua mente e quelli sparsi sulla tua scrivania, di questo progetto maturato mentre leggevi N.L.S. ed a lungo desiderato.
Adesso l’hai a portata di mano, questo progetto che si trasforma in realtà, studiato e pianificato con chi ha deciso di seguirti, di condividere con te questo piccolo grande pezzo della tua vita.
La Via degli Dèi al contrario, da Fiesole a Badolo.
C’è solo una manciata di giorni, in cui riprendere mentalmente il filo dei preparativi già abbozzati e concludere questa fase, prima di intraprendere quella vera: il cammino.
Di certo ti mancherà qualcosa, oppure ti accorgerai di aver esagerato con altro, ma quello che conta adesso è mantenere acceso il fuoco, non lasciare che il fumo dei dubbi e delle incertezze soffochi l’entusiasmo con cui ti sei avvicinato a questo viaggio di ringraziamento.
Come dice Enrico Brizzi, “ogni uomo capace di riconoscenza … ringrazia alla maniera degli antichi. Strada facendo.”

La Via degli Dei
 Viaggio di ringraziamento
da Fiesole a Madonna dei Fornelli  (28-30 settembre 2007)

A Iris e Nando
dai quali sei stato,
anche a causa di quei monti,
troppe volte separato

“Ogni uomo capace di riconoscenza ... ringrazia
alla maniera degli antichi. Strada facendo.” (E.Brizzi)

Partenza
 Sognavi da lontano di essere in un bosco in alto, sulla cima di monti che avevi visto soltanto dal basso, passando lungo l’Autostrada del Sole, tutte le volte che, per svago o per lavoro o per motivi familiari avevi attraversato quel crinale che chiamano Appennino.
Adesso l’avevi a portata di mano, questo progetto che diventava realtà, a lungo studiato e pianificato insieme a chi aveva deciso di seguirti, di condividere con te questo piccolo grande pezzo della tua vita.
La Via degli Dei al contrario, da Fiesole a Bàdolo. Perché in senso opposto a quello classico? Non sapevi spiegarti con esattezza il motivo della tua scelta, che forse era dettata dal fatto che ti piace partire da ciò che conosci, per andare verso quello che non sai o conosci di meno.
Restava ormai solo una manciata di giorni, in cui ripercorrere mentalmente il filo dei preparativi già abbozzati e concludere questa fase, prima di intraprendere quella vera: il cammino.
Di certo ti sarebbe mancato qualcosa, oppure ti saresti accorto di aver esagerato con altro, ma quello che ora contava, era mantenere acceso il fuoco, non lasciare che il fumo dei dubbi e delle incertezze soffocasse l’entusiasmo con cui ti eri avvicinato a questo viaggio di ringraziamento.

Prima tappa (Fiesole – Sant’Agata Mugello: 45500 passi, percorrenza effettiva: 10 h 45 m’, dislivello in salita: m 611, dislivello in discesa: m 800* ( * = i valori di dislivello espressi sono approssimativi, calcolati sulla base  della “famosa” guida al percorso)
La mattina presto siete partiti da Fiesole, in località Monte Fanna, di fronte ad un piccolo tabernacolo dedicato alla Madonna, prendendo a salire per un sentiero che si ricollega ad una strada di accesso ad un ripetitore della Telecom (con i segnali miliari siglati ancora “SIP”).
Il cielo dell’alba, grigio come fumo di Londra, aveva già iniziato a sputare pioggia sulle vostre teste, più come una punizione che un battesimo. E voi, senza capirne il perché, vi ostinavate ad avanzare in silenzio lungo la salita, con il peso degli zaini sulla schiena che vi faceva stare a capo basso, come penitenti in pellegrinaggio riparatore.
Siete arrivati a fianco del ripetitore e subito dopo siete già in cima al Poggio Pratone, un colle su cui è stato posto di recente un cippo scolpito con un brano tratto da un’opera di Bruno Cicognani.
Siete ripartiti subito per gettarvi a capofitto nel bosco a vegetazione mediterranea che digrada verso nord, su altre colline fiesolane. La bellezza del luogo e la sua lieve asprezza naturale vi erano velate da fitte coltri di nubi che scendevano direttamente dal cielo per piangervi addosso tutta la loro desolazione.
Lungo il sentiero, molte tracce di animali ed anche segni di fulmini caduti in passato (grosse pietre sparse nell’erba vicino a tronchi divelti e bruciacchiati) facevano pensare alla forza naturale di tali fenomeni ed alla loro imprevedibile occorrenza.
Avete scavalcato la Vetta Le Croci che già era mattina da un bel po’, dopo aver incrociato la provinciale con il suo caos, spingendovi più in alto, verso la Croce dei Sette Santi, che promette un’indulgenza di 60 giorni (così pochi per tutta ‘sta fatica!).
Ormai l’ascesa a Monte Senario (815 metri di altezza, il vostro odierno gran premio della montagna) è decisamente in atto, senza possibilità di tregua, in mezzo a pioggia, nebbia ed a un venticello che tende ad aumentare la propria forza, non promettendo niente di buono. Siete per giunta zuppi dalla testa ai piedi e lo zaino pesa ancora di più, gravato dall’umidità accumulata, nonostante l’abbiate protetto con una sgargiante copertura.
Suona la campana del mezzogiorno, filtrando tra gli alberi che contornano la strada; solo un poco e potete vedere sopra di voi il profilo triangolare del convento, con l’orologio che svetta sul punto più alto. In chiesa non c’è nessuno, ma oltre il transetto, nel coro, i frati intonano l’ora media in un gregoriano che ti ricorda quello ascoltato da qualche disco, molto tempo fa; e ti scende un brivido nel profondo, non sai se di freddo o di stupore.
Forse è la fame; meglio mangiare e scrollarsi di dosso quella vescica piena di pioggia (e di materiale) che avete portato sulle spalle ormai da troppe ore.
Esulti per un piccolo sprazzo di sole che ha illuminato il grigiore intorno alle statue dei Sette Santi fondatori del convento, ma non fate in tempo ad allontanarvi cento metri che si abbatte su di voi l’uragano. Una tempesta di vento e pioggia da tirarvi a terra. Così non resta che riparare sotto le arcate della scalinata, per proteggervi dalla forza del maltempo. E preghi… quale luogo migliore per farlo? Non sai nemmeno più perché siete lì, cosa ci fate sotto a quei mattoni vecchi con il corpo scosso dai brividi, con la testa vuota che chiede solo di riposare all’asciutto.
Per fortuna, si placa un po’ il vento e con lui, la pioggia diminuisce d’intensità; ripartite, mezzi traballanti, e giù per il bosco, a capofitto tra le piante piegate verso destra dall’eolo occidentale.
Il sentiero, mal segnalato, è un lago; in certi punti diventa un rio minaccioso da scavalcare per non esserne travolti.
Ti passava per la testa il ricordo di certi film sulla guerra nel Vietnam, con i soldati americani sprofondati nel fango che avanzano guardinghi, evitando le trappole di Charlie. Non fosse per l’assenza di anima viva (eccetto il canto di qualche cornacchia invisibile), diresti che sei finito in una zona di combattimento e chiedi al tuo amico di contattare via radio il soccorso aereo per dargli la nostra posizione. Ma lo sai bene che la vita non è un film, come canta anche J Ax, ed hai paura che, alla fine, il buono perda davvero. 
La strada maestra, di sicuro. Colpa di quell’acqua maledetta, un sentiero vi sembra un rio, le “palle gialle” sono una leggenda come l’araba fenice e voi proseguite dritti sull’unico tratturo percorribile senza gli stivali da pesca e sfociate sopra Campomigliaio, lontani diversi chilometri da San Piero a Sieve. Sono già le quattro e mezza, dovete arrivare a Sant’Agata: come fate? A piedi, che altro!
Peccato che tu abbia la netta sensazione che stia per scoppiarti un vulcano sotto il tallone sinistro. Zoppicando, ti aiuti a proseguire con il bastone sull’asfalto liscio, ma duro come un macigno per le tue articolazioni ormai giunte al limite della sopportazione.
A San Piero, cessata finalmente la pioggia, una piccola sosta al bar, per reintegrare forze e morale. La signora che vi serve racconta le sue abituali escursioni a Monte Senario (anche se fatte parzialmente in auto) per la strada che avete percorso voi, che lei asserisce essere migliore - e non saprai mai se è davvero così o lo dice per consolarvi dello sforzo fatto in più.  
Riprendete in direzione delle montagne che fanno da sfondo al panorama verso nord, con la convinzione (ahimè erronea) di essere vicini alla mèta. Sono ancora dieci chilometri di pura sofferenza, su una strada asfaltata secondaria, che passa vicino ad un campo da golf e su cui sfrecciano diverse auto sportive, costringendovi a serrare a sinistra, procedendo spesso in fila indiana. Per quello, era meglio prima, in mezzo al bosco, senza nessuno a minacciare la vostra incolumità.
Davanti alla chiesa di Gabbiano, provi a telefonare, ma il Siemens è completamente appannato, tutto impregnato di pioggia filtrata dalla custodia. Speri di arrivare in tempo per la cena, non hai l’esatta idea di dove sia l’agriturismo in cui avete prenotato.
Ci arrivate col buio; sono le otto, dopo dodici ore esatte dalla partenza, ormai esausti.
La signora vi prega di togliere gli scarponi: per il fango (dice lei), per eccessiva cautela (dici tu, perché si sono puliti nel tragitto). Non credevi di avere prenotato il letto in una moschea. Luigi lascia le sue impronte sul pavimento di nessun pregio e sui gradini, ripidi fino al secondo piano di quella casa; lui ha i calzini zuppi di pioggia, tu no; e soprattutto non hai vesciche, ed anche questo, nel suo genere, è un piccolo miracolo.

Seconda tappa (Sant’Agata Mugello - Traversa: 16800 passi, percorrenza effettiva: 7 h 10 m’, dislivello in salita: m 795, dislivello in discesa: m 226)
Di tutte le nubi di ieri, è rimasta soltanto qualche traccia nel cielo e sembra proprio che oggi non piova. Il sonno profondo ti è servito per liberarti da tutti quei dolori che ti attanagliavano, dal collo fino ai piedi e che, ogni volta che ti giravi nel letto, erano spilli infissi nel profondo della carne.
Il cammino prosegue, anche se non siete più molto sicuri su quale sarà la vostra prossima fermata.
Riprendete il sentiero che ieri sera, nell’oscurità, avevate intravisto e comincia subito una salita implacabile che vi obbliga ad  una posizione prona, per evitare di farvi trascinare a valle dal peso del “bambino” che portate sulle spalle. Impronte di cinghiali nel terreno sono dovunque e, mentre vuoti la vescica, hai quasi l’impressione che ti possano osservare da non molto lontano.
Potrebbe essere un belvedere naturale quello che si apre sulla vostra sinistra, scoprendo il fondo valle fino all’estremità di Bilancino e merita il tempo per l’unico tipo di scatto che sei in grado di fare, viste le tue condizioni.
Il bosco continua a prendere il sopravvento sul sentiero che si fa un po’ più stretto e pietroso. Ai suoi lati, rovi pieni di more saporite, invitano a sgranchirsi le spalle, togliendovi di dosso il “bambino”. Capisci che, se lo avessi riempito meno, probabilmente non avresti l’impressione di essere crocifisso ogni volta che lo indossi. Ma, si sa, il pellegrino deve soffrire. Come sicuramente facevano i vostri predecessori su questo sentiero, senza abbigliamento adeguato, né scarpe da trekking, né calzini anti-ampolle o altro.
Entrate in un tratto fitto di pini mediterranei e piante ad alto fusto, così scuro da non far filtrare che qualche raggio di sole. Sembra il bosco delle fate che, da piccolo leggevi prima di addormentarti o ascoltavi sui 45 giri di quelle sonore, che poi hai ricomprato su nastro per la piccola Marta. Che oggi, sabato, è a scuola, perché ormai è cresciuta anche se non ti sembra vero che possa avere già raggiunto in altezza tua suocera.
Il tuo amico esclama “Oh, beautiful!” e come per magia, spuntano dal sentiero due tizie dall’aspetto nordico, che sorridono della sua facezia. Fanno parte di un gruppo di turisti stranieri che, a coppie, procede lungo il sentiero secondo il classico senso di marcia dell’itinerario. Hanno zaini piccolissimi eppure ti chiedi come facciano ad aver un aspetto così lindo, come se fossero usciti da poco da un quattro stelle, mentre voi assomigliate più a degli sherpa tibetani con i cinesi alle calcagna. Forse hanno le valigie in albergo che qualcuno porta per loro con un automezzo ad ogni posto tappa. Hai intravisto ieri sera qualcosa di simile a Gabbiano, nel parcheggio di un Bed & Breakfast lungo la strada.
Ah se avessi potuto farlo anche tu, l’avresti volata questa via! Forse ti sarebbe davvero riuscito di farla tutta in soli tre giorni, quando c’è chi ne impiega cinque o sei, oppure, come vi aveva detto l’albergatrice di Sant’Agata, prende il treno da San Piero a Firenze.
La salita è terminata dopo che avete sentito il motore di un aereo da turismo passare sopra le vostre teste a poche centinaia di metri, a confermarvi che la cima di quel poggio era stata conquistata. Finalmente un po’ di tregua, la via scendeva sotto castagni e querce che facevano ombra ad un sole nettamente più forte di prima. Ma è stata solo una breve interruzione al rito di penitenza dell’ascesa dolente, che riaffonda la sua presa poco dopo e di continuo, fino ad un rudere di pietre rimaste in piedi a testimoniare la durezza della vita in quei posti. Sembra la casa di un boscaiolo, sulle mappe potrebbe corrispondere a Riarsiccio, ma il punto esatto non si capisce data l’incertezza della riproduzione in scala.
Via verso il Passo dell’Osteria Bruciata (917 metri), mitica tappa per i pellegrini medievali, che rischiavano, secondo la leggenda, di venir depredati, uccisi e poi serviti in pasto ad altri viandanti, dal perfido oste che la gestiva. Un racconto da brividi, degno di Mary Shelley, che forse non corrisponde alla storia vera che parla, invece, di un covo di briganti, che non trattavano molto meglio i facoltosi pellegrini, ma almeno non erano dediti al cannibalismo, e che furono cacciati via dal fuoco appiccato alla locanda dalle guardie dell’epoca.
Purtroppo è l’ora di pranzo e diventa per voi certezza il dubbio di non poter arrivare a Madonna dei Fornelli quella sera. Riparerete a Traversa, dove sono ancora aperti, al contrario del Passo della Futa, già chiuso per ferie.
Un venticello fresco aggredisce il tuo riposo sull’erba di una proda lungo il sentiero “46” del CAI-BO, che ormai siete costretti ad abbandonare per lo “00” che sale al Monte Gazzaro. In certi punti è molto ripido ed insidioso, con radici di arbusti che vi servono da appiglio. Ad un certo punto, sei in bilico su un pendio scosceso e scivoli di brutto: il “bambino” ti ha tirato giù, ma per fortuna sei riuscito a puntellare la racchetta con la destra e puoi aggrapparti con la sinistra al tronco di una querciola per riportarti in carreggiata.
Manca ancora poco alla cima, vedete dei cippi con strani segni, incontrate un piccolo spiazzo con panche in legno (tipo cerchio scout), finché si apre di fronte a voi un panorama a centottanta gradi: di fronte la grande croce di ferro del Monte Gazzaro che sale a forare l’azzurro del cielo; un po’ più sotto, si vedono in lontananza il Cimitero Tedesco della Futa e la strada che porta a Traversa.
Apponete la vostra firma sul libro della vetta, un quadernone scolastico ormai senza più spazi vuoti, chiuso in una custodia metallica. È il punto più alto per oggi e, forse, di tutto il vostro percorso (1125 metri).
Alè, giù di corsa verso la Futa, superati soltanto da dei tizi su moto da cross che ironizzano sul vostro equipaggiamento da montagna. Arrivati alla fine dello sterrato, vi infilate sulla strada statale n. 65 che da Barberino sale al Passo della Futa, proseguendo poi verso Bologna. Lassù ci sono varie targhe commemorative, ma quella che ti colpisce è dedicata ad un pilota che ha vinto per quattro volte la mitica Mille Miglia, quando la corsa era fatta con le migliori auto sportive del momento e non come la rassegna modaiola per VIP, possessori di auto d’epoca, di oggi.
Transitate davanti all’albergo-ristorante chiuso, con una miriade di motociclisti che sfrecciano a velocità impensabili, incuranti dei limiti segnalati e dei box per autovelox disseminati ai bordi della strada, come tanti piccoli samurai assatanati sulle loro variopinte cavalcature nipponiche.
Sono quasi le cinque e vi scorrono di fianco le prime case del borgo in cui riposerete le vostre membra messe a dura prova da questi due giorni di cammino. Non vi sembra vero di entrare così presto da Jolanda e trovarvi una signora cordiale che vi accoglie come se foste eroi dell’antichità, con il rispetto e la cordialità che, forse, solo la gente di montagna sa ancora possedere.

Terza tappa (Traversa -  Madonna dei Fornelli: 16500 passi, percorrenza effettiva: 5 h 30 m’, dislivello in salita: m 438, dislivello in discesa: m 582)

Il sole splende da dietro i monti promettendo finalmente una bella giornata. La cena di ieri è stata ricca di proteine e di sapori come da tempo non ricordavi. Il tuo amico deve ancora smaltirla e lo capisci guardandolo in faccia che, forse quel po’ di vino che avete preso, gli ha creato un maggior impegno. Ma sai anche per certo che lui non cede così facilmente. Te lo ricordi bene quando, da ragazzi, giocavate insieme a calcio nel campino sotto casa sua, dove ti fratturasti un piede e lui ti portava sulla bici da cross con la sella lunga, diventando un cliente invalido sul suo improvvisato “risciò”. Tu forse riuscivi a batterlo sui cento metri, ma lui non si fermava mai, come un diesel di vecchio stampo. Ci vuole altro per stenderlo.
Il profilo del Gazzaro lo osservate dalla strada che stamani percorrete per breve tratto a ritroso, verso la Futa e vi sembra molto più in alto di dove siete ora, quasi a stupirvi ancora per la fatica di ieri. Poi vi arrampicate sul fianco della montagna alla vostra destra, su fino al sentiero romano della Flaminia minor, con i tratti di selciato che spuntano nel bosco come enormi funghi di pietra grigia, levigati dal passaggio dei secoli e delle legioni che si spostavano dall’Emilia alla Toscana e viceversa.
Erano pezzi di strada larghi due metri e quaranta (otto piedi romani) per consentire il transito ai carri con le masserizie. Se pensi che la costruzione di questa strada risale al 187 a.C., immagini quanti schiavi vi abbiano lavorato, e puoi soltanto intuire in quali condizioni fossero tenuti.
Continuate il cammino immersi nel verde chiaro dei faggi che fanno da ombrello all’antica via militare, lo stesso colore che avevi ammirato la scorsa primavera sopra Maresca, quando ancora non ti saresti mai immaginato di puntare di netto verso la cima brulla del Corno alle Scale.
Incontrate gente che scende o che sale per gite domenicali ed un simpatico podista acciaccato che ti racconta i suoi mali come fosse tuo zio; anche questo è bello, ci si saluta tutti e si ha una buona parola per l’altro, cosa che non succede quasi mai in altri posti: forse dobbiamo sentirci deboli contro l’asprezza della natura per ritrovare un po’ di solidarietà?
Mentre pensi così, appare uno spiazzo senza alberi di fronte a voi in cui pascolano alcuni maiali di cinta senese; uno di loro vi guarda con aria minacciosa, ma appena vi avvicinate di qualche metro, scappa velocemente lontano dal sentiero. Quel posto è indicato sulla mappa come Le Banditacce, posto più alto di tutto il trekking a quota 1202 metri, ma non vedete nient’altro che possa ispirarvi tale eponimo e nemmeno delle indicazioni. Ripensi ad una tua recente lettura in cui la trama si svolge tutta nei boschi lì intorno, con protagonista un certo Marco Walden, supereroe troglodita del terzo millennio che prova a ripetere l’esperimento di Thoreau.
Il Passeggere, poco più di mille metri di altezza, a trentacinque miglia da Bologna, schiude la vista sulle pendici sovrastanti il paese di Bruscoli, dove un tuo collega pratese va a visitare gli operai di un forno e pensi che, se fa questo bel viaggio, ne avrà ben motivo. Intanto vi riposate con qualche etto in più nello stomaco.
Un’allegra comitiva di gitanti vi sorprende nell’abbozzata siesta che vi siete concessi, tra una telefonata alle consorti ed un messaggino canzonatorio per gli amici rimasti a casa. Vi rialzate senza fretta, ma con l’idea sempre più consolidata di arrivare a Madonna dei Fornelli nel pomeriggio.
La Piana degli Ossi è lì, poco distante, con la sua piccola entrata protetta da un malconcio tetto di lamiera, a ricordare che i gruppi archeologici sono spesso sostenuti soltanto dall’impegno e dalla fatica di pochi appassionati.
Manca poco alla fine del bosco che vi lascia su un grandissimo prato scosceso, regno di cacciatori i cui capanni sono visibili sul limitare della zona alberata. La strada qui è larga e ben tracciata ed il panorama che si gode fino sull’Autostrada del Sole rende giustizia al nome dato a questo doppio nastro d’asfalto. Col binocolo riesci a malapena a vedere il Cimone in lontananza, con la cima e l’anticima spruzzate di bianco, ma basta per ricordarti la recente ascesa dall’Abetone, anche allora insieme al tuo amico.
Procedete ora in salita, sotto un sole caldo che fa aumentare la quota di sudore che bagna il dorso dello zaino. Le pendici del Monte Bastione (1190 metri), che un tempo erano una cava di pietre per la Flaminia Militare, oggi sono ricche di legname tagliato ed accatastato in grossi depositi sul bordo della strada, in attesa del trasporto a valle.
Nella discesa incontrate villette ben tenute, seconde case ancora piuttosto vive, con persone che si godono la bella giornata di inizio autunno.
Solo un breve raccordo dall’asfalto al nuovo sterrato che scende rapidamente a valle, dopo aver incrociato un fondo chiuso della Telecom con alcuni ripetitori di segnale ben protetti da un’alta cancellata. Ormai il bosco si fa più basso, prevalgono piante di rovi e bacche, finché arrivate ad alcune case in località Bonacca. Siete quasi al termine della tappa, ed avete tutto il tempo per ammirare il panorama su Madonna dei Fornelli ed i suoi dintorni, da un accogliente prato in località Ca’ dei Farini. Adesso non vi resta che telefonare a casa, per farvi prelevare e ricondurvi alle solite buone cose di tutti i giorni. Non più boschi e montagne, ma pianura , o al massimo, qualche collina.

Arrivo
Non sei giunto fino in fondo, fino a Bàdolo. Purtroppo le ferite accusate nella prima tappa hanno fiaccato la tua resistenza ed hai dovuto rallentare il passo. Ma di strada ne hai fatta tanta lo stesso. Ed è stata utile a capire che era la maniera più giusta per muoversi. Quella dei nostri antenati, quella dell’era pre-automobilistica, quando il tempo era scandito dal percorso del sole e della luna.
Come ha scritto Enrico Brizzi, “ogni uomo capace di riconoscenza … ringrazia alla maniera degli antichi. Strada facendo.”
Così anche tu, che hai già solcato la soglia della ragione, puoi lasciarti andare al sentimento e ringraziare per ciò di cui non ti sei reso, forse, mai abbastanza conto. Di questo viaggio meraviglioso, che fa ormai parte di quell’altro più lungo, in cui non si ripassa dalla partenza ed in cui inesorabilmente tutto scorre, che chiamano vita.
Sai di aver avuto la comprensione ed il sostegno dei tuoi familiari e l’aiuto di chi non è più qui, ma ha lasciato dentro di te il seme buono, quello che, se trova terreno fertile, dà frutti.
Che tu possa, ora che sei tornato, vedere molto più chiaramente.

Il mio GRAZIE a : Luigi, che mi ha accompagnato ed ha condiviso con me questa avventura della fine di settembre del 2007, come un amico fedele in mezzo a mille difficoltà, che quasi mai riusciamo a comprendere fino in fondo, se non vivendole insieme.
 Alberto, che ha svolto con dedizione il compito di autista a supporto della spedizione.
 In particolare, grazie a:
 Sara e Marta, che hanno avuto la pazienza di sopportarmi finora.
 Roberta, Alberto e Francesca, per aver sottratto loro Luigi per tre giorni.

Per una lettura di Henry David Thoreau
Negli ultimi tempi mi è capitato di leggere alcune opere di Henry David Thoreau, da un volume preso in prestito dalla biblioteca comunale, in un’edizione di cinquant’anni fa.
Altre letture interessanti che mi avevano colpito di recente, hanno riportato alla mia attenzione gli scritti di Thoreau, esponente del trascendentalismo americano, con un bagaglio culturale di stampo classicista e naturalista da far invidia a molti contemporanei.
Nel suo “Una settimana tra i fiumi Concord e Merrimack”, in cui l’autore mescola i ricordi di un viaggio fluviale compiuto con un amico su quei corsi d’acqua della sua regione natale con le leggende popolari e gli spunti naturalistici su flora e fauna di quel territorio, si trovano riferimenti a poesie ed altre opere letterarie del mondo anglosassone o classico greco-romano, degne di uno scrittore europeo. Per lui che era americano, così fiero delle sue origini, significa un grande tributo a quello che noi, spesso, non vogliamo o sappiamo ricordare.
Qualcuno l’ha paragonata ad “Ulysses” di Joyce, un’odissea “in nuce”, tra i boschi e le valli del Massachussets e del New Hampshire, tra fantasmi di indiani e di coloni vestiti come John Smith (di Pocahontas).
Soltanto un accenno di un intermezzo poetico:
 “Dovremmo ancora cantare come un tempo,
Volentieri mi sbarazzerei dei libri, non so leggere;
Di tra ogni pagina, vaga il mio pensier lontano
Giù nel prato, dove è più ricco il nutrimento,
E non gli importa di colpire il giusto segno.

Plutarco certo valeva, e così Omero;
Ben varrebbe rivivere la vita di Shakespeare;
Ciò che Plutarco leggeva, quello no, non serviva;
Né servivano i libri di Shakespeare, a meno che non fossero uomini.

Qui, mentre giaccio sotto questo ramo di noce,
Cosa m’importa dei Greci o di Troia,
Se più giuste battaglie or si scatenano
Tra le formiche, sopra questa altura?

Che Omero aspetti, finché ne avrò visto la fine,
Se le rosse o le nere gli dei favoriranno,
O se quell’Aiace scompiglierà la falange
Sforzandosi di scagliare un masso sul nemico.

Che attenda Shakespeare un’ora di mio comodo,
Poiché adesso ho da fare con questa goccia di rugiada;
E non vedete? le nubi preparano un rovescio –
Sarò da lui fra poco, quand’è azzurro il cielo.

Questo pascolo d’erba e avena selvatica fu sparso
L’altr’anno, con più grazia che non usino i sovrani;
Una zolla di trifoglio mi serve da cuscino
E le viole mi coprono le scarpe.

E ora le nubi cordiali si sono rinchiuse,
E lieve s’alza il vento a dir “Tutto va bene”.
Gocce sparse si rovesciano sottili,
Qualcuna sul laghetto, altre sulla campanula.

Sono inzuppato sul mio letto d’avena;
E vedo quel globo scivolare dallo stelo;
Ora è là, fluttuante come un pianeta solitario,
E ora affonda nell’orlo del mio vestito.

Stillano gli alberi attorno, per tutta la campagna,
E ogni ramo distilla una ricchezza rara,
Solo il vento fa nascere ogni suono,
Quando qui, sulle foglie, spicca i cristalli.

Mai il sole più si mostrerà, per la vergogna,
Che mai con i suoi raggi potrebbe struggermi tanto;
I miei riccioli stillanti diverranno un elfo,
Che, vestito di perle, gaio se ne va.”

Credo che per capire meglio Thoreau sia utile leggere la prefazione all’edizione di “Walden o Vita nei boschi” di Wu Ming II. La fusione tra naturalismo e letteratura di cui è stato capace, sbalordisce ancora oggi per la dovizia di particolari e la perfetta conoscenza dei classici e dei suoi predecessori anglosassoni.
Ma egli era anche un uomo di profonda coscienza civile, come si può capire leggendo il suo saggio “Civil disobedience” che ha ispirato personaggi come Ghandi o Martin Luther King.
   
  
Sono sparite le nubi
 Sono sparite le nubi come per uno strano incantesimo e poco più in alto, alla tua sinistra, hai visto uno spettacolo che non avresti mai immaginato: una costruzione enorme, in mezzo ad antenne e parabole di ripetitori radiotelevisivi ed una stazione meteorologica simile ad un rifugio con l’enorme pala di un anemometro girata vorticosamente da un vento impetuoso.
Fino a poco prima ti chiedevi quanto mancasse ancora alla cima, non vedendo altro che un fosco grigiore intorno a te. Lo zaino pesava sulle spalle, dopo parecchio tempo dalla partenza di quella mattina dal piazzale dell’Abetone sotto le due piramidi. Avevi ricevuto la consegna: assegnato al turno di guardia dell’osservatorio del Monte Cimone, in sostituzione di un altro soldato portato via dall’elicottero il giorno prima, sembra per una colica.
Il piccolo autobus blu della caserma ti aveva sceso lì da solo, il sergente e l’aviere scelto che ti erano stati compagni di viaggio occasionali, se ne erano andati subito, senza neanche scendere per un caffé.
Ti eri incamminato seguendo il sentiero indicato sulla cartina che avevi avuta prima della partenza. Il cielo minacciava pioggia, nuvoloni grigi un po’ dovunque si intravedevano tra il fitto degli alberi a lato del sentiero, che salendo si faceva più stretto.
Ripensavi a quello che ti aveva detto il sergente maggiore: “Vedrai che ti piacerà, anche se all’inizio ti sembrerà di essere nel posto più sperduto del mondo. E’ un po’ come nel film Balla coi lupi, quando il protagonista dice che vuole andare a vedere la frontiera, prima che scompaia”. Te l’eri appuntato sulla tua moleskine, ti era piaciuto il paragone con il tenente dell’esercito nordista che a cavallo di Sisko esplorava le più estreme praterie dell’Ovest.
Ma ora non era lo stesso. Perché il tuo Ovest era l’Appennino Tosco-Emiliano e non c’era nessun indiano sul tuo sentiero, neanche uno sherpa per alleviarti il carico. Ti veniva in mente, piuttosto, il Duca degli Abruzzi, esploratore e soldato, su tante montagne d’Italia e del mondo. Anche lui obbediva agli ordini dei suoi superiori, ma aveva la possibilità di lanciarsi nelle imprese che gli piacevano, mentre tu, al massimo, dovevi cercare compiacimento nell’eseguire quanto deciso dall’alto.
Cercavi di capire se tutto questo avesse un risvolto positivo: avresti passato un po’ di tempo in un luogo solitario e selvaggio, avresti forse avuto il tempo di fare qualche esplorazione nei dintorni e riappacificarti con te stesso.
Non era passato molto da quando te ne eri andato di casa, senza aver pensato troppo a tutti i pro e i contro della tua decisione di arruolarti nell’Aeronautica. Tuo padre non era molto d’accordo, ma la mamma non aveva posto veti; era una tua scelta e, poiché ormai eri maggiorenne, lei non ti aveva ostacolato. L’addestramento a Taranto era stato terribile: sporcizia dovunque, rancio immangiabile e nonnismo esasperato te l’avevano fatto sembrare un girone dantesco, ma ti ci eri adattato con spirito di sottomissione, cercando di limitare i danni, certo che sarebbe passato in fretta. Poi la destinazione di Firenze, molto più vicina, per cui non sapevi se dover ringraziare il caso o qualcuno dei tuoi. Ma ora si era presentata questa occasione… ti eri ricordato di un libro di Kerouac che avevi letto qualche mese prima della tua partenza, in cui lui raccontava la sua esperienza di guardiano di un parco nazionale degli Stati Uniti. Ti era piaciuta l’idea di startene da solo in cima ad un monte a controllare chi e cosa non sapevi ancora bene; probabilmente avresti avuto molto tempo per pensare ai fatti tuoi, o almeno così speravi.
Adesso incominciava a pesarti davvero lo zaino. Avevi imboccato il sentiero che dal Trampolino conduce alla fonte, un posto ombroso in cui nella bella stagione le famiglie vanno a fare il pic-nic. Col pieno nella borraccia, avevi imboccato il sentiero che si addentra nel bosco e sale sulla vetta del Monte Maiori, a millecinquecentosessanta metri di altezza, un piccolo spiazzo tondo contornato da faggi ed abeti. Ti pareva più il bosco delle fate, oscurato ai raggi del sole dalla fitta vegetazione che impedisce al sottobosco di svilupparsi, lasciando la terra scura e brulla, con i soli rami secchi di contorno. La discesa verso La Verginetta si apriva su un panorama più rilassante con una vista sulla catena montuosa a fianco del Libro Aperto, che avresti percorso di lì a poco. Il rifugio Casetta di Lapo, ancora chiuso, ti era sembrato una piccola capanna di pastori, disadorna, appoggiata ai piedi della montagna che da quel punto sale decisamente verso l’alto. Intanto le nuvole si erano diradate, sospinte da folate di vento fresco, lasciando entrare raggi di sole ad ammorbidire il paesaggio ormai privo di alberi. Ogni tanto incontravi dei cippi di pietra, antichi segnali del confine tra il Granducato di Toscana e il Ducato di Modena, alcuni dei quali riportavano inciso l’anno di posa (1790 e rotti); pensavi a chi li aveva dovuti portare fin lassù e poi interrarli, con i mezzi di allora e, in confronto, il tuo bagaglio era una piuma. Era da un pezzo che stavi salendo senza soste, piano piano, ed il cielo non era più libero, ma occupato ancora da nubi che si muovevano veloci come il vento che le sospingeva, ora da un lato e ora dall’altro del crinale; ti lasciavano il tempo per vedere che eri sulla cima del Libro Aperto e capire che l’avevano chiamato così perché sembra un volume grande come quello di un’enciclopedia, lasciato sulla dorsale appenninica ad eterno memento della scoperta della stampa.
Hai puntato la bussola oltre quel monte ed in quella direzione l’ago ti indicava il sud-est. Dovevi prendere a sinistra, quel sentiero che si inerpicava sinuosamente sul fianco di una cresta erbosa. Dopo un altro tratto di salita, sei arrivato ad un piccolo anfiteatro naturale: una pozza d’acqua lasciata dalla neve ormai sciolta, contornata da grossi sassi come fossero i gradini di uno stadio; era il luogo (ed il momento) giusto per mangiare qualcosa. Ti restava ancora un po’ di strada da fare; sullo sfondo avevi intravisto, tra una nuvola e l’altra, la tua mèta.
Così, sei risalito ancora più in alto, sopra zone brulle con rocce affioranti dal terreno, spazzate dal vento, finché ti si è aperta la visuale sul radar alla tua sinistra, come la cupola di una chiesa che non avresti mai immaginato così grande dal punto in cui ti era apparsa all’inizio della salita.
Sei arrivato a destinazione. Ti sei presentato: “Aviere C.! … Comandi, Signore!”.


Pellegrinaggio a La Verna                                                                                             
 "Conosco una musica dolce nel mio
   ricordo senza ricordarmene neppure
   una nota: so che si chiama la partenza
   o il ritorno”
  Canti Orfici, Dino Campana
 
  Start, please! Fra poco, sarò di nuovo per le strade del mondo, felice di poter sentire la terra scorrere sotto i piedi.
 Il pellegrinaggio a La Verna, cento anni dopo quello del poeta Dino Edison Campana, a piedi da Marradi a La Verna. Dai giorni dell’agognato trekking a tutti i costi, alla possibilità concreta di realizzare un viaggio a piedi nel Parco delle Foreste Casentinesi.
 Il grande Henry David Thoreau diceva che se non camminava almeno per quattro ore al giorno, non gli sarebbe riuscito di mantenersi in buona salute. Per questo lasciava ogni tanto la sua Concord (dove, peraltro, viaggiò più che dappertutto) per fare escursioni in altre regioni, come quelle nelle foreste del Maine.
 Campigno (poco più a sud di Marradi), nelle foreste del Mugello, sarà la mia base di partenza per il viaggio lungo i percorsi cantati da Campana nel “Diario della Verna”.
  “I monti orfici di Dino Campana” di Giovanni Cenacchi, il libro che ho messo in testa (più che nello zaino), insieme al “Diario”. Questa volta ho trovato posto per cose da leggere, pur rinunciando ad altro; porterò solo l’essenziale: ma cosa è veramente “essenziale”? H.D. ha curiosamente riportato nei suoi diari quello che, secondo lui, ci voleva per una gita di qualche giorno in montagna:
“Tre camicie a scacchi, ben pesanti; due paia di calzini; un fazzoletto da collo e una cravatta; tre fazzoletti da naso; un gilet pesante; un pastrano leggero o semi-pesante; un pastrano pesante (per la montagna); un sacco grande di gomma, con una apertura ampia; una camicia di flanella; tre sparati; un tovagliolo; spille, aghi e filo; una coperta; un berretto da notte; tenda (o forse soltanto un ampio foglio di gomma per quando si è in cima al monte?); velo e guanti; carta geografica e bussola; libro delle piante e carta; lente, microscopio; nastro, scatole per gli insetti; coltello a serramanico; lenza ed aghi da pesca; fiammiferi; sapone e stracci per asciugare; carta straccia e spago; cucchiaio di ferro; una mestola, un secchio con manico; un’accetta ben affilata; pane raffermo (vanno bene dei biscotti); un morbido plumcake, del maiale, della lingua, dello stufato, zucchero, tè, caffè e un po’ di sale.”
  A parte qualche utile consiglio, credo che per farci entrare tutto quello che ho scritto, non mi basterebbe l’ottanta litri che avevo sulla Via degli Dèi, ma sarebbe un peccato non soffermarsi, ogni tanto, a leggere. Lo terrò presente. Meglio rinunciare ad un pacco di biscotti (piuttosto che al morbido plumcake) che poi, inevitabilmente, ammuffiscono prima che si riesca a finirli.  
 Comunque, mi ispirerò a Thoreau e, a parte la fotografica digitale, non voglio avere troppa modernità in tasca o sulle spalle. L’hard road  ha i suoi canoni ed io non voglio allontanarmene troppo. E dunque … via verso quel “…paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos…”


Marradi - La Verna, 100 anni dopo Campana    (11 giugno 2009)
A Nella
Salgo (nello spazio, fuori dal tempo)
Perché andare in pellegrinaggio a La Verna? La domanda di fondo è quella che, prima di tutte, si pone chiunque provi a capire cosa lo spinga a farsi una settantina di chilometri a piedi (anche se non è un’esperienza riservata a pochi eletti, perché suddivisa in quattro tappe), invece di andarsene al mare o in vacanza da qualche altra parte. Come spesso si legge e si sente spesso dire: “La mèta non è la destinazione, ma il viaggio stesso”. Forse la risposta sta proprio nel primo rigo di questa pagina: salire nello spazio e fuori dal tempo, quasi cento anni dopo Dino Campana, uno che prima ha camminato in questi luoghi e poi ne ha scritto il diario nella sua opera più nota: “Canti Orfici”. Come ha scritto Giovanni Cenacchi: “Ad ogni passeggiata ci com-muoviamo verso qualcosa che sentiamo appartenerci pur essendo lontano, differente da noi, distante dalle nostre origini. Più il nostro cammino diventa esplorativo, più assume valore introspettivo”[1]. 
Un resoconto di questo pellegrinaggio (viaggio da pellegrino, perché tale mi sono sentito) sarebbe forse un noioso esercizio stilistico: preferisco il rumore del vento (questo, Campana non l’ha mai scritto, almeno credo) che, sfogliando a caso le pagine dei Canti, si porti dietro tutta la fatica fatta sui sentieri bagnati dalla pioggia di questa monsonica primavera.

Diario
 Il percorso non è proprio lo stesso che fece il poeta, anche se non è del tutto chiaro, pur basandosi sulle località citate nel “Diario”. Inoltre, lui lo fece nei due sensi, mentre io mi sono limitato all’andata.
Campigno (vicino a Marradi) è la base da cui sono partito, luogo campaniano per eccellenza. Lui lo conosceva, per esserci stato tante volte ed averci probabilmente vissuto durante le sue “fughe”.
Ho imboccato il sentiero che da Farfareta sale al Monte Lavane, tra prati in fiore, in mezzo ai colori più belli della natura appenninica. Da lì, sono sceso all’Acquacheta, la località dove il salto del torrente genera una cascata di grandi proporzioni e spettacolarità, ricordata anche da Dante. Poi verso paesaggi più campestri, con pascoli e terre coltivate fino alla discesa al Passo del Muraglione. Per tutta la tappa non ho incontrato nessuno (se si eccettua la vista in lontananza di un tagliaboschi sotto al Monte Lavane, in prossimità del passaggio del metanodotto). Fino al bar-albergo del passo, pieno di motociclisti intenti a rifocillarsi, divenuti ormai l’ultima risorsa del gestore, stanco e desideroso di ritirarsi in pensione.
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Dopo una notte umida, riparto per il sentiero CAI n. 00, immerso nella nebbia, sotto una pioggia fine che entra dappertutto ad appesantire il bagaglio e non solo. Così proseguo finché si alza il vento, dal versante di sud-ovest, dove, invisibile, c’è Castagno d’Andrea, luogo evocato dal poeta. Un sottile brivido mi assale quando vedo l’incrocio dei sentieri n. 14 e 14A che salgono da lì fino al Poggio Giogo, dove mi sono fermato a riposare qualche minuto: lui veniva su da qui, quasi certamente; chissà come sarebbe stato vederlo oggi, nei panni di un escursionista… magari proprio come me… Non c’è più tempo per i pensieri, la Giogaia affonda i miei passi nel tappeto di foglie sparse che rendono ancora più sdrucciolevole la tremenda salita; è un muro su cui fatico ad arrampicarmi, tenendomi puntato con le racchette e abbracciando gli esili tronchi dei faggi più giovani per non essere scaraventato a valle dalla gravità.
Ansimando come un mantice, arrivo al piano del rifugio Fontanelle dove posso mangiare e riprendermi (un po’) dallo sforzo fatto. Un timido raggio di sole buca le nuvole e le chiome degli alberi per raggiungere la piccolissima radura di fronte alla costruzione della Forestale. Nel silenzio del bosco, che non è tale perché gli uccelli cantano (ed è un vero piacere ascoltarli), addento il panino che ho preso stamani al bar, che non è molto diverso da quello che costituisce il mio pranzo abituale (a parte le dimensioni), ma ha un sapore tutto particolare. Sulla Falterona (Giogo): l’ho provata anch’io la sensazione di salire, salire, senza tregua, come se si fosse fuori da tutto, anche dal tempo. Vedere, tra gli alberi che lasciano un po’ di spazio sul ciglio del baratro, il profilo della tellurica montagna come un enorme parallelepipedo coperto di alberi… ed è verde, nero e argento (venato sui fianchi da corsi d’acqua a precipizio), con un cappello nero di nubi in cui s’inselva “l’ultimo asterisco della sua melodia”!
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Il Passo della Calla non offre molti spunti a chi non va in motocicletta, ma da lì parte un sentiero parallelo alla strada asfaltata che si presenta tutto lastricato in pietra, a testimoniarne l’antico uso per i trasporti dei secoli passati. Prelude a Campigna, con il suo viale dei tigli, che sembra un pezzo di Svizzera trapiantato sui monti della Romagna, tanto che ci si sente un po’ come stranieri. 
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La via per l’Eremo di Camaldoli non pare lo stesso sentiero nel bosco dei giorni precedenti: c’è il sole sopra le chiome degli alberi, ci sono tante persone a camminare (è domenica), perfino molti bambini e il loro allegro vociare rompe un po’ l’incanto della foresta (si intravede la fuga di una volpe più a valle). Certi momenti servono comunque a riprendere il contatto con la realtà che viviamo, con il resto del mondo che continua ad andare avanti anche senza di te.
La salita al Passo Fangacci non è più difficile di altre che ho già fatto nei giorni precedenti; dopo una breve discesa, riesco a scorgere dall’alto Badia Prataglia come in una cartolina, appoggiata al fianco di una valletta solatia, che mi ripagherà della fatica fatta per raggiungerla con un’ottima cena ed un calmo riposo.
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L’albegatore, ad occhio e croce mio coetaneo, mi mette in guardia sulle difficoltà del percorso di quest’ultima tappa che mi porterà alla Verna.
Speravo di aver finito di spaccarmi la schiena a salire con questa zavorra per sentieri impervi e sassosi, invece, forse oggi più degli altri giorni, sembra essere il tratto più duro, anche se il meno lungo come distanza. Già il Poggio della Cesta mi mette a dura prova, sarà anche per via di una piccola vescica che è comparsa sotto l’alluce sinistro. Fino a Frassineta è un deserto, neanche i cinghiali incontrati sul sentiero sono riusciti a farmi sentire nel mondo civilizzato. Piuttosto è un paesaggio completamente diverso da com’era fino a Badia, quello delle foreste casentinesi di faggi ed abeti. Qui la terra è sassosa, arida, la vegetazione è più bassa, meno fitta e sembra perfino impossibile che qualcuno provi a viverci. A Rimbocchi si deve guadare il Corsalone, gonfiato dalle piogge recenti, e non trovo di meglio che finirci dentro perfino con lo zaino. Credo di essermi fatto seriamente male ad un polso, ma riparto per l’ultima salita, il Poggio Montopoli e poi la Verna.
Sotto le rocce del Santuario, che si erge a strapiombo, come un rapace che vi abbia fatto il nido, la mèta si fa reale: dovrò solo salire ancora un po’ e poi sarà completato questo pellegrinaggio. Quando sono sul piazzale sotto la croce, mi viene in mente la descrizione crepuscolare del poeta con “i frati che si congedano dai pellegrini” e la campana che “tintinna nella tristezza del chiostro”.

Fine del pellegrinaggio
Nella Cappella delle Stimmate, tutta diversa da come doveva essere al tempo di San Francesco, mi trovo a ringraziare per i piccoli miracoli ed i grandi doni ricevuti. Il viaggio è stato lui stesso la mèta ed ora è davvero concluso. Chi è venuto con me, ne ha condiviso lo spirito e le difficoltà ed io non posso che essergli grato: spero di averlo, almeno in parte, ricambiato con la bellezza dei luoghi e della poesia di Campana.
[1]  Giovanni Cenacchi “I Monti Orfici di Dino Campana. Un saggio, dieci passeggiate ” Ed. Polistampa, Firenze, 2003. http://www.polistampa.com/asp/so.asp?id=14525

Le Cronache di Norcia   (6 dicembre 2008)
Perché me ne sto qui, adesso, seduto su un paracarro, durante una sosta del mio cammino? La domanda è banale quanto la risposta che la segue: quante storie si nascondono dietro ad un paracarro!
Non più paracarri, ma guard-rail dappertutto. Ecco come è cambiato il bordo della strada negli ultimi decenni. Queste strutture resistono ancora sulle strade “secondarie”, quelle di campagna o di montagna, dove passano pochi automezzi e dove si va piano, sempre meno, ormai. Andare a piedi lungo queste vie fa vedere particolari che a velocità superiori sfuggono.
I paracarri in pietra su cui è scolpita l’indicazione della strada e la distanza percorsa o da percorrere, lasciano impressi nella memoria ricordi indelebili. Come quando, partito da Sassetta, arrivai, insieme ai miei compagni scout, a Monteverdi Marittimo, traversando un’assolatissima campagna maremmana. Tutta la strada a piedi, con lo zaino di iuta di tipo militare, troppo pesante per le mie spalle di dodicenne gracile, con il solo sostegno dei paracarri su cui mi appoggiavo durante le soste che avevamo stabilito ogni due chilometri, per non rimanere annientati dal caldo e dalla fatica. Di macchine ne passavano poche, sull’asfalto ribollivano i fumi evocati dal solleone, nella mia testa prendeva sempre più campo l’idea della fuga per andare a riposarmi all’ombra dei rari alberi di lato alla strada. Ma resistetti fino al paesetto, in cima alle colline, in cui dormimmo al riparo della tettoia del circolo parrocchiale, con il cielo stellato ad illuminare i nostri sogni di adolescenti. La mattina presto già svegli e, dopo colazione, via di nuovo sotto il sole, sempre più alto e caldo, verso la strada del ritorno al campo.
Ora, trent’anni dopo, sono ancora a piedi, con uno zaino più moderno, meno inadeguato alla mia persona, a camminare sotto un sole molto meno rovente, ma con più consapevolezza di chi sono e di cosa cerco. Sono partito con un amico per Castelluccio di Norcia, paese arroccato su un colle che poggia su un anfiteatro naturale, circondato da catene di montagne altissime, proprio in mezzo al Parco Nazionale dei Monti Sibillini, vicino al confine tra quattro regioni (Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo); ci sarebbe da scervellarsi, se si fosse a scuola. Il mio amico e all’epoca compagno di banco, durante le lezioni catturava le mosche e, dopo averle separate dalle ali, le confezionava in piccolissime teche costruite con lo scotch, per donarle alle nostre compagne inorridite. Spesso veniva messo in punizione per questi passatempi “innocenti”. A lui non importava molto di perdersi qualche spiegazione di geografia della professoressa Fiorani, che lo definiva uno “scostumato” per principio. La geografia la imparavamo direttamente sul campo durante le nostre gite in bicicletta, oppure sull’atlante, che era uno dei miei libri preferiti dell’epoca. Solo che era così vetusto nella parte politica, con tutti quegli stati dell’Africa o del Sudamerica che cambiavano bandiera come le signore la biancheria intima. Per fortuna che non potevo andare là, altrimenti non avrei saputo come potermi regolare per ottenere il visto.
Siamo così sulla strada del Pian Grande, un nastro nero in mezzo al verde cangiante dei prati destinati in parte al pascolo delle pecore e un po’ alla coltivazione della lenticchia. Il paese lì sopra, ci guarda con sospetto, come tutti gli “stranieri” da queste parti, come quei “crucchi” patiti per il parapendio, con le loro auto e furgoni coperti di lunghi tubolari variopinti, pronti a spiegarsi nell’azzurro per dare aria al sogno di Leonardo da Vinci (che pare ne avesse progettato un modello).  
Noi non sembriamo come loro, siamo forse più consoni ai pastori, che vanno a piedi sulle alture intorno al piano a cercare erba per le loro bestie, circondati da cani bianchi, quasi come le pecore, ma pericolosamente guardinghi. Luigi rischia un segno sui pantaloni (e nelle terga), ma per fortuna la sua reazione fa indietreggiare il minaccioso maremmano che si era avvicinato a noi mentre passavamo vicino ad un ovile, prima della scesa nel piano. Un villico ci dice di prendere “la scorcia, tanto andate a piedi”. Buona idea, se solo ci fosse un segnale di indicazione dopo il primo palo, sbiadito, riportante la dicitura “sentiero giallo”. Forse è nato dall’idea di un cinese, sparito nel nulla subito dopo. Una traccia calpestata nell’erba corta e già un po’ meno verde per colpa dei primi freddi ci guida per piccoli colli cui seguono avallamenti tondi come le gobbe di un cammello, dai quali affiorano qua e là piccole pietre aguzze. Un giovane guardiano di mucche fa spostare il branco al pascolo per cederci il passo. Si prosegue in salita, sempre più irta, fino a degli abbeveratoi per gli animali, da cui si intuisce un sentiero che corre un bel po’ sopra le nostre teste. Arrivarci non è uno scherzo, anche il piccolo zaino che ho sulle spalle non è proprio un piuma in questo frangente. Così arriviamo su questo stretto nastro di terra scura che porta subito dopo alla Forca Viola, amato colore della passione calcistica, ma vertiginoso pendio verso la valle dei laghi. Si fa fatica a rimanere in piedi per il vento tanto forte che soffia in questo punto e per l’immediata e ripidissima parete del monte che cala a valle. Meglio lasciar perdere l’idea di scendere, troppo dislivello da ripetere per tornare alla base. Il lago di Pilato lo lasciamo a Cesare, oggi scegliamo il Redentore. Proseguiamo sul sentiero in cresta alla catena dei monti che stamani facevano da immenso scudo all’orizzonte ad ovest di Castelluccio, coperti da nuvole come se avessero indossato un cappello grigio, levandoselo solo per qualche istante per salutare un raggio di sole. Il vento ci accompagna, sempre impetuoso e ora anche più freddo. Ci vogliono guanti e cappello: io indosso quello da giungla, mio compagno dei trekking passati, ma forse un po’ troppo leggero per l’occasione. Il Pizzo dei Tre Vescovi ha l’aspetto di una triplice punta di tiara, sempre in tema di copricapo. Sulla proda del sentiero c’è un fiore che somiglia ad una stella alpina (è una varietà dell’appennino centrale descritta nelle guide). Potrebbe esserci bisogno di altra energia per l’ascesa, ma basta il desiderio di arrivare sulla Cima del Redentore (2448 metri), più in alto del Cimone “nostrano”, così rotonda e tranquilla a vederla dal basso, ma rocciosa ed impervia sul versante interno, con diverse strisce di neve a ricoprirla a chiazze. L’aria è fredda, siamo immersi nella nebbia, di sotto si intravede la piana con Castelluccio apparentemente appoggiato su di essa. Non sembra percepibile la rarefazione dell’aria, ma il nostro naso e le guance sono alquanto arrossati, più che per la fatica fatta. C'è tempo per la foto di rito, come per ogni ascesa degna di essere accolta tra i ricordi e poi indietro fino al sentiero oltre la forca, verso la Capanna Ghezzi, un ex-rifugio, ora adibito ad ovile, da cui si snoda un'ampia strada sterrata carrozzabile. Incontriamo dei tizi in mountain-bike, quasi tutti con il mezzo in spalla. E’ dura arrivare quassù pedalando.
E dura è la vita dei pastori, oggi sempre meno presenti, come ci confida il gestore del bar-alimentari della piccola piazza di Castelluccio. Se ne vanno in cerca di un lavoro che permetta loro di avere più tempo libero e luoghi meno isolati, a “fare fortuna”. La mentalità dei paesi è la stessa dovunque. Eppure c’è anche chi ritorna qui, restaura le case diroccate, per vivere di turismo. Vedremo quello che sarà in futuro, “crucchi” piacendo, se nel frattempo non saranno affogati per il troppo bere.

Fausto De Stefani, un grande alpinista ed esploratore ha recentemente scritto: "... Sono molti gli alpinisti e gli escursionisti che hanno avuto il privilegio di assaporare la montagna in tutti gli aspetti più belli che poi non sanno spendere una parola, un pensiero non stereotipato sulla bellezza naturalistica della montagna e invece si dilungano in eccessive analisi tecniche dell’impresa compiuta...".  Quando sono in certi luoghi non posso fare a meno di sentirmi vicino a pensare che “Deus sive natura” sia un'espressione della bellezza del creato.
  
 
 XI ZONA PIPPO   ( 11 giugno 2009)
Davanti al monumento fatto a blocchi di cemento con targhe bronzee che ricordano, a tutti quelli che le leggono, il sacrificio dei soldati, dei partigiani, dei civili che morirono negli anni dal 1943 al 1945, si ha una sensazione di mesta gratitudine per l’acquisita democrazia e la possibilità di vivere liberamente, pagate a caro prezzo da questi nostri antenati. Forse non siamo loro abbastanza riconoscenti, se non in certe occasioni, del tutto formali, o quando il TG ci ricorda il XXV Aprile con il solito servizio. Arrivare quassù, salendo il pendio ripido nella faggeta mista ad abeti che parte dal Rifugio del Lagacciolo a Pian di Novello e sbuca sul crinale in località Macereto della Guardia, fa pensare a quanto difficile potesse essere la vita durante quegli anni di guerra, soprattutto per chi si nascondeva nella boscaglia e cercava di scardinare le difese della Linea Gotica, che qui conserva ancora qualche trincea.
Sotto la vetta del Monte Poggione, a 1771 metri, il vento che soffia dal versante lucchese ci scompiglia con forza e cerca di strapparci di mano anche la macchina fotografica, come se volesse impedirci di testimoniare quello che resta di questo scempio umano. La vista sui monti, senza confine tra loro ed il cielo, insegna che non c’è terra che non sia dell’uomo, a qualsiasi razza egli appartenga, e degli altri esseri viventi che la popolano. Lo capisco da quei moscerini quasi invisibili, di un colore celeste chiaro quasi metallico, che a frotte si posano sulla mia giacca a vento nera, creando macchie insolite: uno di loro è insignificante, ma tutti insieme sono un popolo, una nazione. E' bello pensare che oggi, se possiamo votare per scegliere un sindaco o un amministratore, lo facciamo grazie anche a quelli che qui rinunciarono alla loro vita per affermare la nostra libertà.


Ultimo approdo   (25 ottobre 2009)
Seppellite il mio cuore lassù, ai piedi della Croda
dove la campana spande il suo lento lamento,
arcano bronzo che vibra al richiamo del vento.

Mai sono stato più leggero e in alto di così.
Le corde tese in parete, sulla roccia d’argento
il bianco niveo della folgore scagliata sui cento
sassi di dolomite aguzza e tonante.

Lasciatemi ancora volare nel sogno
di un ultimo viaggio avventuroso
dove il tempo si dipana silenzioso.



La montagna dorata   (2 dicembre 2009)
Goldberg   (Die Kunst der Variatio)
 Aria con variazioni
R.S. aveva sofferto fin da piccolo di quella strana forma d’insonnia, che non lo faceva dormire, se non qualche ora al mattino presto. Si alzava sempre con la sensazione di non essersi riposato a sufficienza, perché non aveva avuto abbastanza tempo a disposizione.
Aveva imparato a leggere di notte, alla tremula luce del comodino, per vincere la sua ostinata resistenza alla perdita di coscienza, fino a sfinirsi tra gli sbadigli e l’odore della stampa.
Col tempo, crebbe e iniziò gradatamente a gustarsi le ore del mattino quando poteva dormire di più perché non c’era scuola o era in vacanza.
A undici anni iniziò a suonare il pianoforte; andava a lezione da un maestro amico dei suoi genitori. Non era molto portato per la musica, ma si applicava con diligenza e gli esercizi del metodo gli riuscivano abbastanza bene. L’Hanon fu completato ed iniziarono per lui le piccole composizioni di Mozart e Kuhlau. Non gli piacevano più di tanto, per quel gusto un po’antico dei minuetti e delle polonesi, piene di quegli abbellimenti che gli evocavano l’arte barocca di certe chiese, fin troppo cariche di decorazioni. Neanche Clementi, che viveva come un’imposizione didattica del suo insegnante, gli suscitava emozioni. Solo Johann Sebastian Bach sapeva trarre la poesia dalle note. Solo lui aveva una forza immensa, celata sotto la trama dello spartito.
Così passò, quasi di nascosto, a suonare alcuni pezzi per organo di Bach, ma anche di Frescobaldi e Zipoli, insieme ad un suo amico più grande che suonava alla messa in cattedrale. Sua madre capitò in chiesa e dalla panca su cui era seduta, sentì la musica di un corale eseguita dal figlio. Così R.S. smise di andare a lezione di pianoforte e prese a frequentare con assiduità il suo amico organista.
Talvolta lo sostituiva a qualche messa nelle chiese della parrocchia, con brevi esecuzioni, quasi sempre troncate per esigenze liturgiche. “Chissà perché i preti vogliono sentire della bella musica, ma deve sempre finire presto, che sennò la messa dura troppo!”- si lamentava fra sè. Progrediva a fatica nella disciplina, poiché nei brani per organo il pedale era sempre presente – talvolta in modo particolarmente impegnativo – e lui non aveva tanto tempo a disposizione per andare in chiesa alle ore in cui faceva comodo al sacrestano. Da allora in poi, la scuola prese il sopravvento, coprendolo sempre più di compiti e nuovi interessi. L’ingresso all’Università cancellò in lui ogni velleità musicale.
Ogni tanto apriva il coperchio del suo vecchio piano ed eseguiva qualche pezzo dal suo misero repertorio. Finchè non si imbattè di nuovo in Bach: questa volta con un’opera imponente, difficilissima per lui – e non solo – che gli avrebbe richiesto addirittura anni per impararne soltanto qualche movimento. La gioia suprema che ne scaturiva dalla sua esecuzione, era sufficiente a compensarlo della strenua fatica a cui sottoponeva la sua mente e le sue mani mentre suonava: l’aria con variazioni dette “Goldberg”, dal nome del musicista cui erano state destinate, per allietare le notti insonni del suo mecenate, il conte Von Keyserling. Un capolavoro della musica di tutti i tempi, eseguito al clavicembalo o, secondo un’accezione più moderna, al pianoforte, dai migliori pianisti. Secondo molti esperti, se Bach avesse avuto il pianoforte, lo avrebbe di certo usato per suonare questa sua opera, questa “Montagna Dorata”.

Variatio I a 2 clav.
Sono in mezzo al traffico, ma ogni mezzo è al suo posto, ha un suo ordine in questo caos cittadino. Anche se mi trovo immerso nei rumori della strada, lo staccato nitido del fraseggio rende pura e perfetta l’atmosfera mattutina. Mi rendo conto di essermi messo a cantare la melodia, solo quando mi si affianca ad un semaforo una donna in automobile che mi guarda con espressione divertita. Le devo essere sembrato perlomeno un po’ strano...

Variatio II a 1 clav.
Le cime dei monti intorno a me si susseguono vicine, coperte di verde, come a formare ondulazioni su un unico tappeto. Sono seduto su un cippo di pietra che segnala il sentiero “00”, del crinale appenninico. E’ come se fossi in cima alla gradinata di uno stadio e guardassi verso il campo di gioco. Alla mia destra, una parete contornata da abeti sale a chiudere la visuale sul passo accanto, come la tavola alzata sulla cassa di un pianoforte a coda, sul cui sgabello immagino di star seduto. Il vento qui si fa appena sentire, non mi investe, come finora aveva fatto nei punti più scoperti del sentiero. Il cielo è terso ed il sole splende, ma non brucia. Sono in una piccola enclave, dove tutto si insegue melodiosamente. Sarebbe un bel posto in cui poter suonare con calma e godere, oltre che della musica, della bellezza della natura tutta intorno.

Variatio III “Canone all’Unisono”  (a mia moglie)
I tuoi gesti lievi, quando apparecchi la tavola o ripieghi i panni o rimetti a posto i piatti in cucina, hanno un ordine innato, generato dall’abitudine e dalla dedizione. Sei come un volo d’ali, leggero e fresco, nel silenzio di questa casa abitata da ricordi antichi. La serenità apparente che ne emana nasconde la tua pena sottile, la tua dolce apprensione per la nostra vita così faticosamente appianata. Ne hai fatto la melodia del richiamo. Rimarrai così per sempre nello scrigno della mia anima.

Variatio IV a 1 clav.
Lo scoiattolo era sceso dal tronco dell’albero che era a pochi passi da me, per salire su quello accanto e poi, rapidissimo, saltare da un ramo all’altro e poi ancora su quello di un altro albero vicino. Potessimo essere così leggeri anche noi, sfidare la gravità ed esserne liberati per qualche istante. Il peso dei nostri limiti che ci tiene a terra, di cui possiamo liberarci solo superandoli con l’immaginazione.

Variatio VI a 1 clav.
Ho letto la notizia di un fisico inglese che ha costruito occhiali universali a bassissimo costo per i poveri del mondo... non esiste scoperta meno pubblicizzata e più importante di questa nell’inizio del 3° millennio... il Premio Nobel sarebbe forse poco ... ma, dato che il beneficio maggiore è per i poveri degli ultimi Paesi del mondo, non se ne sa molto di più. La via di Siloe è stata aperta... perché, come sta scritto: “andò, si lavò e tornò che ci vedeva.” 

Variatio VII “al modo di Giga” 
Spingevo sul pedale dell’acceleratore, come se stessi provando dei passi di danza, accennando alle curve più strette, sterzando con dolcezza per evitare di perder il controllo dell’auto. Salivo per i tornanti che vanno a San Baronto, nel primo pomeriggio del mio compleanno, solo, a festeggiare il genetliaco in modo insolito, con la natura intorno che celebrava il suo apice invernale con un cielo grigio e incupito dall’umidità della recente pioggia. Fari accesi... 70, 80, 90, qualcosa oltre, segnava il tachimetro,; poi 40 in centro abitato; di nuovo al limite dei giri...scalavo le marce, tra una curva e l’altra... attento a non passare la linea di mezzeria...
Infine l’arrivo in chiesa, a ringraziare per tutto quello che c’è, senza che io me ne sia mai del tutto accorto.

Variatio IX “Canone alla terza”
Stavo aggrappato alla fune d’acciaio che costeggia il Sentiero Barbara, sotto la Cascata Fanes. Non avevo portato l’imbracatura, ma su quel piccolo pezzo di roccia levigata dall’acqua, era un accessorio che non mi impediva di proseguire. Forse sopravvalutavo la mia forza nel contrastare la paura del vuoto, perché erano solo pochi metri sotto di me, ma in qualche maniera ne ero stimolato. Era una sfida con me stesso, per completare la mia maturazione psicofisica: mi sono ricordato della ferrata "Dibona", percorsa più di vent’anni fa, con un cordino legato in vita che a vederlo oggi darebbe non poche perplessità sulle sue capacità di tenuta. Eppure ricordo di non aver mai avuto la percezione del più minimo rischio, allora. Solo la consapevolezza del tempo trascorso apre lo spazio ad emozioni nuove, diverse, ma affascinanti. Ho superato le mie piccole difficoltà, stando attento a mettere i piedi nel punto giusto, bilanciandomi sulle braccia nei passaggi tra la fune e gli scalini infissi nella roccia. Tutto è filato con ordine, senza stecche, come un’esecuzione lenta, ma perfetta di questa variazione.

Variatio XVIII “Canone alla sesta”
Salgo lungo la traccia sassosa che porta al Bivacco de Toni, proprio sotto la Croda omonima. Il mio amico mi ansima accanto come il mantice di un somiere per la fatica dovuta all’ascesa. Stiamo pagando il nostro tributo alla natura impervia che aveva precorso chi, cent’anni prima di noi, aveva tracciato il primo solco tra i sassi, sotto il fuoco nemico. Era stato costretto a ripararsi dietro le rocce, gli anfratti naturali offerti dal terreno, per scansare la linea di fuoco dai monti circostanti. Oggi restano qualche muretto a secco, una piccola grotta scavata nella roccia, qualche pezzo di filo spinato arrugginito, pezzi di legno levigati dal tempo. Tutto riesce, in un senso armonico, a ricreare nel tempo ciò che doveva essere il caos di quei giorni tristi. Soldati che morivano più per il freddo e per gli stenti che per le pallottole del nemico, comandanti isolati e mal equipaggiati per far fronte a tali difficoltà. Tutto ciò per conquistare questi magnifici sassi, enormi monumenti di pietra da cui non si ricava niente. Oggi incroci gli austriaci che ti salutano sul sentiero: non ti sparano più, non ci sono più le divisioni di un tempo, siamo tutti cittadini di un’Europa unita, in cui il dio Euro schiaccia le nostre vite come una volta gli ordigni bellici. Chi è il vero nemico? I nostri padri e i loro fratelli austriaci hanno distrutto le loro vite di ragazzi, distolti dai loro studi e dalle loro occupazioni per combattere un’assurda guerra, rimasta soltanto nei libri di storia. Mio nonno era un “ragazzo del ‘99”: era stato destinato a Caporetto. Devo ringraziare il bacillo della pleurite che lo colpì se oggi posso stare quassù, in mezzo alle trincee, a stupirmi per la bellezza di queste architetture naturali. 

Variatio XXV “Adagio”
Dino Buzzati amava le Dolomiti, quasi fossero delle donne inavvicinabili, difficili da comprendere.
Mi sono ricordato di “Inviti superflui”, che ascoltai la prima volta da mio padre, quando uno dei miei compagni di viaggio mi ha raccontato di una sua precedente storia con una ragazza. Anche lui non riusciva a sincronizzare il suo stato d’animo, dettato dalla bellezza della natura, con la fanciulla che aveva di fronte, persa in altri pensieri. Strane le donne, come certe montagne, che più sono impervie e più ti stimolano alla conquista. Ma, a volte, l’impenetrabilità è causata dalla mancanza di interessi comuni, di un’assonanza di emozioni che genera il desiderio di stare insieme.

Variatio XXX “Quodlibet”
“Rape e cavoli mi hanno troppo distratto”. La natura ha preso il sopravvento.
Non siamo che piccole formiche che vanno in fila, una dietro l’altra, tra un sasso ed un altro, in mezzo ad una foresta con alberi immensi. Crediamo che il sasso sia il centro dell’universo, ma in realtà non è che una piccola parte, molto affollata, del cosmo. Viviamo su isole, come naufraghi a cui è concesso abitarvi; tutto intorno è l’oceano.
Ieri ho visto gli abeti rossi, quelli che suonano. Chissà se il loro legno sarà utilizzato per produrre la cassa di un pianoforte o di un violino o di un violoncello. E’ bello pensare che una foresta possa dare un concerto silenzioso, solo per i suoi abitanti. Caprioli, volpi, marmotte e, molto più in alto, aquile.

Aria da capo
Il lavoro lo aveva distolto fino a tardi, come sempre, alla scrivania dello studio. Il signor G. accese gli speakers del personal computer e selezionò la cartella “Goldberg”: iniziò l’aria con variazioni nella versione di Gould del 1981. Il suo lento incedere sembrava dilatare all’infinito il tempo passato dai suoi primi studi al pianoforte. Amava quella musica sopra ogni altra perché gli ispirava pensieri sublimi, alieni al logorio quotidiano. Suonare l’aria e qualcuna delle variazioni più semplici era un’impresa che in gioventù gli era quasi riuscita, lasciandogli il ricordo della gioia suprema scaturita da quelle esecuzioni. Ora si accontentava di sentire le registrazioni perfette di Gould o di altri interpreti meno “fondamentalisti”; ne possedeva almeno una decina di versioni. L’aveva colpito molto il filmato dell’ultima registrazione di Gould, poco prima della sua morte, completamente ripiegato sulla tastiera, con due occhiali enormi, ondeggiante con movimenti lenti e cerimoniosi, in una sorta di danza religiosa, quasi ci stesse lasciando un’eredità.
Quando non riusciva ad addormentarsi, come si racconta facesse il conte Von Keyserling, G. ascoltava questa musica, capace di lenire ogni affanno, di stemperare ogni tensione.

Una sera d’estate, in cui faceva particolarmente caldo, aprì la finestra della camera per far entrare la leggera brezza che spirava, ma non c’era verso di attenuare la calura opprimente della pianura. Filtravano, appena percepibili nel silenzio della città vuota, le note del figlio del vicino, studente al Conservatorio da qualche tempo: era l’aria che mancava, quella delle Goldberg.
Quella melodia lontana gli ricordò sua madre, tanti anni prima, che gli cantava una dolcissima ninna nanna per farlo addormentare. Cullato da quel ricordo, gli sembrò che fosse passato solo un attimo da allora, sentì un soffio tiepido sul volto: trasalì e non ebbe tempo di accorgersi che un angelo gli aveva teso la mano gentile per guidarlo laddove tutto ha inizio e fine.
       
  

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Ho incontrato il Bianconiglio nel bosco incantato dei Monti Liguri

Questa storia inizia dall’incontro con il Bianconiglio… (sì, propro lui, il coniglio di Alice nel Paese delle Meraviglie), che, tutto trafelato, si precipitava giù per una breve scesa superandoci nei pressi della Sella Burain, in mezzo al bosco, soffermandosi appena a salutarci. “Ehilà, sapete per caso com’è il sentiero verso Montenotte?”- ci apostrofò. “No, anche noi andiamo in quella direzione…finora abbiamo trovato un po’ di tronchi caduti, ma per fortuna si passa!” - rispondemmo. “Ah, vero! Beh, grazie lo stesso, ma sapete…ho un po’ fretta! Bello il vostro modo di parlare! Di dove siete?” “Siamo della Toscana…di Empoli!” “Ah..non ci sono mai stato,   ma mi piace! Ciao ciao!!” E in un battito di ciglia era già cinquanta metri avanti a noi in salita, arrancando tra le radici della faggeta coperte da un tappeto di foglie rossastre che ci nascondeva, insieme ad un po’ di foschia, la cima del Bric Sportiole. Dopo qualche minuto, non lo abbiamo più visto…dileguato nel
In Liguria, non c’è libertà senza fatica, né cammino senza sudore “Ho sceso con te …almeno un milione di scale…” scriveva Eugenio Montale in una famosa poesia, di cui adesso intuisco meglio il significato, dopo aver salito e sceso molte scale, per percorrere a piedi tutte le Cinque Terre. Da Portovenere a Levanto, e poi oltre fino a Moneglia, un intreccio di sentieri tra “Alta Via delle Cinque Terre” e “Via della Costa”. Scalini e scalette, in pietra, in cemento, di legno…in qualsiasi materiale, ma sempre scale. Sembra ci sia stata una mano che ha disegnato percorsi in cui è vietata la dimensione piana. Non troviamo quasi mai una soluzione ai continui dislivelli da affrontare, con uno zaino troppo pesante per questo tipo di percorsi. Il mare è là sotto, ti sembra di poterlo raggiungere con un tuffo, ma non è abbastanza vicino per poterlo fare davvero. Il panorama è splendido, il sole inizia a far le prove per l’imminente stagione estiva, sui sentieri incontriamo